Seminario Uninomade sulla rete
SAVE THE DATE: 7-8-9 Maggio 2010
Luogo: Vega – Parco Scientifico e Tecnologico di Venezia
Relatori confermati per I, II e III sessione, da confermare per il forum
Presentano la proposta: B. Vecchi, T. Terranova, L. Casarini
La rete come possibile espressione del comune:
formula tanto generica, quanto introduttiva a un percorso di ricerca poco
battuto, ma che ha comunque alcune tappe alle spalle. In passato, abbiamo sostenuto, in polemica
con un determinismo tecnologico che molta eco ha avuto nel “movimento”, che
Internet è molto più che una connessione di computer o espressione di una già
avvenuta e conclamata convergenza tecnologica che apre magicamente le porte al
regno della libertà.
In primo luogo, la rete è espressione di una cooperazione produttiva e sociale, l’habitat in cui mettere a verifica
le quattro grandi tripartizione della critica all’economia politica:
produzione, scambio, circolazione e consumo. La discussione della rete come
rappresentazione del comune si configura dunque come critica dell’economia
politica del capitalismo contemporaneo. Per questo va sgombrato il campo da
visioni romantiche che sono emerse proprio quando la distinzione tra dentro e
fuori lo schermo ha cessato di essere operativa. Il world wide web occupa ormai
un posto stabile nella vita sociale, tanto nel Nord che nel Sud del pianeta.
Non luogo, meglio uno spazio separato in cui le dinamiche comunicative,
relazionali seguono logiche che nulla hanno a che fare con le relazioni sociali
dominanti, bensì habitat propedeutico alla manifestazione della cooperazione
sociale e produttiva. Se non fosse una omologia irriverente, la rete sta al
capitalismo contemporaneo come il capitale finanziario sta all’economia
cosiddetta reale: sono cioè due momento dello stesso regime di accumulazione
capitalista.
Già si possono immaginare le obiezioni sul digital divide o sul sudore della
fronte che imperla il corpo del proletariato industriale. Non che siano
prive di fondamento, ma vanno contestualizzate all’interno di quelle geografie
di potere vigenti in ciò che da alcuni anni chiamiamo impero. Il sorpasso delle connessioni in Cina su
quelle statunitensi, così come l’uso pervasivo delle diaspore dei migranti per
mantenere il “contatto” con i paesi di provenienza, dando vita a comunità dove
le identità sono continuamente inventate e modellate a seconda dei conflitti
che le oppongono al regime di sfruttamento imposto dai «nativi». Anche la
diffusione della telefonia cellulare nel Sud del mondo segnala che il network
della comunicazione digitale ha da tempo
esteso le sue maglie sull’intero pianeta. Allo stesso tempo, il downsizing
globale e l’emergere di estese impresa a rete nel pianeta non sarebbe
minimamente possibile immaginare senza che la rete sia il luogo dove viene
coordinata una produzione sociale diffusa che, come in un caleidoscopio,
consente la compresenza di lavoro operaio tradizionale, inedite forme di lavoro
servile e una sempre più sofferente “classe creativa”.
E’ dunque ingenuo proporre una lettura della rete come anticipazione di un futuro ancora in formazione. La rete è il
nostro presente. Per
questo va respinta quella vision
che indica il web come un luogo di una radicale libertà minacciata dalla
presenza delle multinazionali e delle imprese, che considerano la Rete come
un’infrastruttura da piegare all’agire economico. La crisi dei media
tradizionali e mainstream, lo sviluppo di esperienze comunicative
indipendenti, il cosiddetto giornalismo di strada vanno visti come il
dispiegarsi, contraddittorio e ambivalente, di quella cooperazione sociale e
produttiva che preside il capitalismo contemporaneo. Da questo punto di vista,
la diffusione dei social network
sono solo tasselli di un mosaico che raffigura la connessione on-line
come elemento “naturale” dello stare in
società, verso il quale va esercita la massima spregiudicatezza analitica: sono
al tempo stesso il simulacro di uno spazio pubblico non statale e tuttavia
contenitore di quei processi di soggettivazione incardinati, non è un gioco di
parole, su un radicale principio di individuazione che presenta tutte le
ambivalenze del caso. Principio di individuazione aperto infatti alla
trasformazione, ma anche a una colonizzazione della vita individuale da parte
delle imprese. La moltiplicazione dei casi di stress psicologico, la
depressione, l’uso intensivo di psicofarmaci e di alcune sostanze che alterano
la percezione della realtà, la tendenza a rapporti di lavoro individuali, il
venir meno del sindacato come istituzione che cogestisce il mercato del lavoro
sono alcune delle fenomenologie presenti nel capitalismo contemporaneo.
Da qui la necessità di un’analisi spregiudicata di tendenze presenti nella network
culture laddove considera la
disconnessione della rete come sottrazione dalle politiche di controllo sociale
che tanto gli stati nazionali che gli organismi sovranazionali perseguono in
questi ultimi anni. L’annuncio che nei prossimi mesi sarà firmato, da parte di
alcuni governi, un accordo, chiamato Anti-Counterfeiting Trade Agreement (ACTA), per reprimere la contraffazione dei manufatti
digitali e non digitali va visto come l’ennesimo tentativo di piegare la rete
alle logiche del capitale. Il trattato è molto più di quando dice l’acronimo
che lo indica: l’Acta è il tentativo di normalizzare la rete sia per quanto
riguarda le attitudini, le pratiche peer to peer e l’uso di licenze alternative
alla norme sulla proprietà intellettuale. Ovvio che una delle risposte a tale
potere normativo sta nel far perdere le tracce della propria presenza in rete
attraverso l’uso di particolari software o in una più radicale e irreversibile
disconnessione dalla rete. Ma una
risposta e una critica puntuale al tentativo di normalizzare la Rete non passa
attraverso una presenza mimetica nel web, né in una fuga dalla rete, bensì
nello stare politicamente dentro la Rete per contrastare i robber barons del
XXI secolo.
E’ dunque inevitabile il rifiuto della distinzione tra comune naturale e comune
artificiale. La querelle sui beni comuni dovrebbe funzionare come un antidoto a
una naturalismo tanto glamour
quanto politicamente e teoricamente pernicioso.
Come abbiamo spesso affermato in questi ultimi anni, la rete, come il sapere e la
conoscenza sfuggono al principio di scarsità caro alla «triste scienza». Le enclosures
del sapere e della conoscenza sans phrase vogliono introdurre proprio
una logica di scarsità in un ambito che sfugge a tale principio applicato tante
volte in passato alla terra, all’acqua, all’energia. Non si vuol negare che
sono ambiti che hanno una loro specificità. Nessuno vuole negare che l’acqua
sia una risorsa limitata, così come è insindacabile che il petrolio è una fonte
energetica destinata a terminare. Cioè che va rifiutato è il tentativo di
ricondurre le pratiche sociali e politiche dentro e fuori la rete alle logiche
dell’agire economico.
Il web è stato inoltre indicato sia come un modello organizzativo per i movimenti
radicali che come uno spazio pubblico
postrappresentativo. Ma se il computer e la rete sono “media totali”,
l’immaginazione politica che cerchiamo di far emergere nella prassi teorica di
uninomade è, in questo caso, come tenere insieme questi piani – cooperazione
produttiva, consumo, scambio di contenuti digitali; e modello organizzativo politico - senza cadere in una generica rappresentazione
della rete. Per questo, va problematizzata la tranquillizzante rivendicazione
di un diritto all’accesso che relega il web in una tassonomia dei diritti
sociali di cittadinanza elargiti da un sovrano compassionevole e tuttavia interessato
ai modi per far tracimare al di fuori dello schermo le innovazioni produttive e
organizzative prodotte nella rete.
L’obiettivo del seminario non può dunque che essere ambizioso, anche se deve
necessariamente far tesoro di quel principio di realtà che vede un accumulo
analitico, teorico e di pratiche con cui dialogare.
Prendiamo il tema dell’analisi del cosiddetto
“lavoro digitale”. Argomento imprescindibile se non si vuol stancamente
imboccare il sentiero mainstream secondo il quale la rete è sì una punta
avanzata dello sviluppo capitalistico, ma il tempo sociale della produzione e
dell’azione politica sono date da quelle forme produttiva ancore impregnate di
taylorismo o, peggio, di lavoro servile. In rete invece coesistono taylorismo
d’antan, just in time, qualità totale, mentre il lavoro servile, se inteso come
relazione gerarchica vis-à-vis, va spesso a braccetto con le forme più avanzate
di organizzazione del lavoro.
Ma se sul lavoro digitale vanno riprese criticamente molte delle analisi che agli
inizi degli anni Novanta relative ai netslaves e sul governo politico
della forza-lavoro digitale attraverso la artificiale distinzione tra perms
e temps e in base quale stabilire rigide differenziazioni salariale e di
accesso a fringe benefit, stock options e assicurazione
sanitaria. Con la crisi questo modello subisce una torsione: tutto il 2009 è
segnato da uno stillicidio di licenziamenti, in Europa e Stati Uniti, e ristrutturazione industriali per la
produzione di software, nelle telecomunicazione, nella produzione di
microprocessori e nell’industria dei videogiochi. Una ristrutturazione a
livello globale che è esemplificata da pratiche di decentramento produttivo e
crescita di una significativa “classe creativa” in Cina, India e Filippine,
solo per citare i casi più noti. Un recente rapporto del Labour committtee
statunitense parla della “miseria del lavoro hight-tech” cinese, evidenziando
come la crescita della classe creativa in Cina si accompagna spesso a una
militarizzazione del lavoro e da un allungamento a dismisura della giornata
lavorativa. In India, la situazione è molto più fluida, ma non mancano analisi
che sottolineano come a Bangalore ci sia compresenza di forme produttive e di
una accentuata stratificazione del mercato del lavoro “digitale”.
Non possiamo però limitarci a passare in rassegna l’esistente. Piuttosto va operato
lo scarto teorico rispetto le rappresentazioni dominanti sul lavoro digitale,
le più note delle quali sono appunto quelle sulla “classe creativa” e quella
sui knowledge workers.
Va da sé, tuttavia, che uno dei nodi più aggrovigliati che occorre provare a
sciogliere riguarda invece l’analisi delle visions dominanti sulla rete.
E se c’è qualcuno che parla di “economia del dono” per rappresentare le
relazioni all’interno della rete, altri studiosi parlano espressamente di una
realtà pressoché postcapitalista, dove il soggetto centrale è quel “consumatore
attivo” che determina, attraverso il potere offerto dalle tecnologie della
comunicazione, strategie imprenditoriali, politiche e quant’altro. Per quanto
riguarda l’economia del dono, la bibliografia oramai può occupare intere pareti
di una ipotetica biblioteca, anche se gli studiosi che meglio hanno articolato
questo concetto sono sicuramente Manuel Castells e Yoachai Benkler. Tanto Castells quanto Benkler non nascondo le
loro simpatie liberal o libertarie. E nei loro libri non è infrequente
che il tema del comune sia posto come centrale per spiegare la logica
“profonda” della rete. Da qui il loro interesse per la critica al copyright e
al regime dei brevetti o l’interpretazione del mediattivismo come una “politica
insorgente” postrappresentativa. Nelle loro analisi però il comune va piegato a
una economia sociale di mercato che deve liberamente dispiegarsi e nella quale vanno
ridefiniti i confini e i limiti dell’intervento statale. E se Castells vede in
un rinnovato welfare state l’ambito in cui garantire lo sviluppo dell’economia
sociale di mercato, Benkler vede nello stato nazionale un dispositivo normativo
che garantisce il libero sviluppo di quell’individualismo radicale, stella
polare della riflessione libertaria statunitense.
Dal peer to peer al downloading, da facebook a twitter, dallo scontro Google con
Microsoft (anche se negli ultimi tempi è più interessante il conflitto che
oppone la società di Bill “King” Gates al boss australiano Rupert Murdoch),
tutto è letto come esito di un individualismo radicale che, impermeabile alle
politiche di marketing delle imprese, ha nell’autodeterminazione del consumo di
contenuti digitali e delle relazioni sociali la sua massima espressione. E’
questo il lato oscuro della Rete, ve ne
è anche uno che ne privilegia la dimensione cooperativa, sociale. Gli studi di
Michel Bauwens sulla peer to peer production sono a questo livello significativi,
perché vede nelle forme relazionali orizzontali consentiti dalla rete forme
sociali alternative al capitalismo. Detto in sintesi, la peer to peer
production non si dà come produzione capitalista. Ma, aspetto questo rilevante
da discutere, la peer to peer production si diffonde viralmente, senza entrare
in conflitto con il comando del capitale. C’è trasformazione della società
perché c’è diffusione di forme sociali di produzione e di rapporti sociali
“alternativi” a quelli dominanti. Allo stesso tempo, tanto più c’è diffusione
di questo virus, tanto più il capitale si presenta nella sua forma parassitaria
della cooperazione produttiva. Al di là dei limiti che questa posizione ha, le
tesi di Bauwnes sono invece da sussumere come espressione di pratiche di
resistenza all’interno della rete con cui dialogare e stabilire “alleanze” nei
conflitti contro il regime della proprietà intellettuale o quando questo o quel
governo nazionale o organismo sovranazionale vuol limitare il diritto di
accesso alla rete.
L’organizzazione del seminario prevede tre sessioni che si articolano nei primi due giorni (
ven. pomeriggio e tutto sabato ) e una assemblea plenaria la domenica mattina.
Tutto il dibattito sarà on line, con la possibilità di iscriversi e loggarsi al
software che gestirà audio, video ma anche la chat, che funzionerà durante la
tre giorni. La traduzione in italiano degli interventi in inglese e viceversa,
sarà simultanea.
All’interno del quadro teorico definito dai nodi di discussione delle tre sessioni,
proponiamo un inserimento tematico che si integra in maniera non scontata nello
sviluppo dei lavori. Un forum che ha come titolo “lavoro autonomo e rete: terza
generazione?”. L’idea di fondo è quella
di ricondurre il terreno di approfondimento sul rapporto tra rete e comune,
alla relazione con la composizione tecnica e politica di un segmento
paradigmatico del lavoro postfordista, che vive, si autorganizza ed è
organizzato per produrre tramite la rete. E’ possibile definire una
antropogenetica della rete, anche a partire dalla sua funzione di
organizzazione del lavoro autonomo di seconda generazione? E, per l’altro
verso, è possibile leggere le mutazioni della rete, osservando gli stili di
vita e le problematiche sollevate da nuove generazioni di knowledge workers che
la attraversano e la modificano, oltre ad essere esse stesse modificate? Il
rapporto tra sviluppo del terziario avanzato, tecnologie e lavoro autonomo,
così felicemente descritto dalla definizione che ci consegna il termine “di
seconda generazione”, esprime oggi solo un aumento “quantitativo” e di
allargamento della sfera dei soggetti in esso anche formalmente coinvolti,
oppure il salto biopolitico del world wide web 2.0 e 3.0, trasforma gli stessi
concetti di “terziario avanzato” e del lavoro correlato alla sua espansione?
Sono domande che pensiamo di scandire all’interno di un momento collettivo di
confronto che veda coinvolti interlocutori diversi, per ruolo ed esperienza. Il
Forum affronta il nodo del lavoro autonomo di seconda generazione, insistendo
sulla particolarità italiana, ma avendo come background la condizione
continentale e globale dei freelancers, knowledge workers, young professionals,
indipendent workers. Le rivendicazioni “sindacali” di questa nuova composizione
in rete, e l’assenza di risposte istituzionali, determinano sia il “rumore di
fondo” che si sta espandendo dai blog e dalle liste, sia prime forme collettive
di autorganizzazione, fondate su interessi e condizioni “comuni”. E non è un
caso che le formule di co-working e crowdsourcing appartengono oggi al più
innovativo know how d’impresa. Inizialmente il crowdsourcing si basava sul
lavoro di volontari, appassionati, attivisti che dedicavano il loro tempo a
creare contenuti e risolvere problemi. Ma oggi il crowdsourcing rappresenta
anche per le aziende un nuovo modello, e all’open source originario si affianca
l’open enterprise, vero e proprio dispositivo fondato sulla disponibilità e
possibilità dei freelancers di offrire i propri servizi su un mercato globale.
La prima sessione, che darà inizio vero e proprio ai lavori del seminario, è
pensata come “ponte” tra il forum e il cuore della discussione. Al centro della
prima sessione vi è la relazione tra il linguaggio, il simbolico, e la rete,
con particolare riferimento alle implicazioni antropologiche che questo
inscindibile rapporto determina. Coordina questa prima sessione Francesco
Raparelli e l’intenzione sarebbe quella di far incrociare questa importante
premessa analitica, con una disamina degli effetti della ristrutturazione del
ciclo della formazione. Che ruolo gioca la rete, sia dal punto di vista di chi
ha promosso il processo di profonda modificazione dell’intero sistema
formativo, sia da quello dei soggetti che lo subiscono e si organizzano per
resistervi ed oltrepassarlo?
Venerdì 7 maggio
FORUM
Lavoro autonomo e rete: terza generazione?
h. 15.00
“composizione tecnica e rivendicazioni politiche del lavoro in rete”
ne discutono: ( proposta: alcuni relatori devono ancora dare la loro disponibilità)
Giuseppe Bortolussi – CGIA Mestre
Sergio Bologna – Acta
Roberto Donadon – fondatore di H –Farm
Michele Vianello – direttore di Vega ( Parco scientifico e tecnologico di Venezia)
coordina Luca Casarini – globalproject
h. 18.00
I sessione
“Antropologia e linguaggio della rete”
ne discutono
Christian Marazzi
Paolo Virno
Manuele Bottaro - HCE
coordina Francesco Raparelli
Sabato 8 Maggio
h.10.00
II sessione
Il valore della rete: un'economia di pari
Relazione introduttiva di Tiziana Terranova
Interventi di Michael Bauwnes della Peer to Peer Foundation
Sadie Plant ricercatrice indipendente
Maurizio Lazzarato ricercatore sociale
Matteo Pasquinelli, animatore della lista di discussione Rekombinant, ricercatore presso la Queen Mary University of London.
h. 13.30 pausa pranzo
h.15.00
Il comune messo al lavoro
Relazione introduttiva di Benedetto Vecchi
Interventi di Geert Lovink media theorist, tra i fondatori della mailing list Nettime e dell’Institute of Network culture, docente dell’Università di Amsterdam
Nick Dyer-Withefort docente della facoltà di Information&Media Studies dell’University of Western Ontario
Toni Negri
Giorgio Griziotti (ricercatore sociale)
discussant Andrea Fumagalli, Gigi Roggero, Alberto de Nicola
Domenica 9 Maggio
h. 10.00 – 13.00
ASSEMBLEA PLENARIA
Intervengono tra gli altri: Caccia, De Pieri, Mezzadra, Revel, Morini, Musella, Pirati, OpenSource, Linux, etc.
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